La stampa in 3D è una tecnologia molto chiacchierata ma chi ne parla spesso non la comprende appieno. Si passa dal descriverla come un diletto per geek che desiderano stamparsi accessori e modellini, a spacciarla, come ha fatto qualche nostro comico-politico, per la rivoluzione che sostituirà intere filiere del valore. In questi giorni la stampa 3D è tornata alla ribalta in modo inaspettato a causa dell’emergenza coronavirus. L’attenzione del pubblico e del legislatore per la manifattura additiva è stata risvegliata da una vicenda avvenuta sul fronte della “guerra” contro il virus, nell’ospedale di Chiari (in provincia di Brescia). Nelle settimane scorse i medici, a corto di valvole per le apparecchiature respiratorie della terapia intensiva e nell’impossibilità di acquistarne dalla casa madre, avevano la necessità disperata di trovare una soluzione per salvare le vite dei pazienti ricoverati. Attraverso il giornale locale, l’ospedale è stato messo in contatto con una piccola azienda del territorio, la startup Isinnova, che in 24 ore è stata in grado di stampare un centinaio di copie della valvola originale, pronte per entrare subito in funzione.
Questo evento di grande impatto ha acceso i riflettori sulla febbrile attività all’interno della community formata da makers e produttori, che già da un po’ di tempo si era messa in moto per dare un contributo all’emergenza sanitaria, iniziando a organizzarsi per produrre materiali mancanti o che sarebbe stato meglio fabbricare in loco per evitare ritardi di consegna. Infatti, per stampare in 3D non basta collegare una macchina ad internet. Per far avvenire la “magia” oltre alla macchina di stampa servono: Un file con il blueprint (per semplificare: il progetto) dell’oggetto da stampare, ovvero la versione digitale del prodotto; Il materiale di stampa, che può essere polvere o filamento di plastica, metallo, ceramica o altro; La cosiddetta post-produzione, ovvero qualcuno che si occupi di tirare fuori il pezzo dalla macchina, eliminare i supporti, le parti non necessarie, ripulirlo dalla polvere in più e, se necessario, rifinirlo. (Eh già, le macchine non sono indipendenti al 100%, contrariamente a quello che si pensa).
Ed ecco allora che in poco tempo makers e grandi produttori sono arrivati a organizzarsi per avere il tutto rapidamente, e non solo in Italia. Nei siti di makers sono spuntati file CAD di tutti i tipi, dalle valvole alle mascherine per il viso. Su Facebook si sono moltiplicate le community e i gruppi in cui le persone si consigliano i materiali migliori, il design più efficace e così via. I big, come Stratasys e HP, si sono mossi fornendo risorse a chi usa le macchine, centralizzando la pubblicazione di design adatti e offrendo supporto tecnico. I ricercatori universitari stanno contribuendo agli sforzi nei vari centri di eccellenza. Infine le aziende che forniscono pezzi a complemento di quelli stampati, come tessuti o schermi per le maschere protettive, hanno accelerato le loro produzioni e donato alle regioni italiane materiali (come ha fatto Decathlon con le proprie maschere da snorkeling). Insomma, il mercato si è popolato di alternative e soluzioni, dando vita ad un’offerta straordinaria, seppur molto variegata a livello qualitativo. E' dal lato della domanda, però, che si rileva più incertezza. A Chiari, come ho detto, si è arrivati alla stampa 3D per vie traverse. Stando a quanto dicono gli attori della filiera, non sono stati facilitati canali di comunicazione tra domanda e offerta, né da parte dello stato né da parte delle regioni. Se davvero questa tecnologia, come sembra, può fornire un supporto per risolvere delle mancanze urgenti, sarebbe dunque opportuno trovare un modo per indicare ai produttori di oggetti stampati in 3D quali sono le necessità.